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Woke: significato e ideologia di una parola controversa (guarda un po’)

woke ideologia e significato

A volte due parole, pur dicendo la stessa cosa, forniscono un senso completamente differente di ciò che esprimono. O, per dirla in termini tecnici, condividono lo stesso intento denotativo (il significato letterale della parola), ma non quello connotativo, ovvero evocano emozioni o associazioni di idee differenti.

Ad esempio, se io dico “persona in sovrappeso” o “ciccione” sto utilizzando due espressioni con il medesimo intento denotativo – designare una persona con qualche chilo in più – ma nel secondo caso sto aggiungendo un intento, diciamo così, secondario, ovvero denigrare quella persona.

Ecco una carrellata di ulteriori esempi: 

  • anziano / vecchio
  • caparbio / cocciuto
  • parsimonioso / tirchio
  • indigente / straccione

Alcune parole o espressioni nascono con l’intento di denigrare, altre invece vedono il loro significato connotativo trasformarsi nel corso della storia. Nel secondo caso, è la società a impossessarsi della parola e a direzionarla in un nuovo modo, al fine di depotenziarla, di screditarla o di ridicolizzarla. È proprio il caso della parola di cui parlerò in questo articolo: Woke.

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Woke: origine e significato

La parola Woke nasce e si diffonde negli Stati Uniti a partire dagli anni ‘30 del XX secolo in riferimento alla necessità di creare consapevolezza nei confronti delle discriminazioni razziali perpetrate ai danni dei cittadini afroamericani. Letteralmente, possiamo tradurre la parola Woke come “Sveglio”, da intendere come un’esortazione, appunto, a “restare svegli” (Stay Woke), avveduti, accorti nei confronti delle discriminazioni.

Negli anni, la parola ha conosciuto una enorme estensione semantica, arrivando a indicare la cultura della divulgazione su qualunque fenomeno discriminatorio riguardante le disuguaglianze sociali (sessismo, omofobia, abilismo, ecc.).

Nella terza fase evolutiva della parola Woke è stato attuato il cambiamento di connotazione a cui ho fatto riferimento all’inizio: questo termine, da simbolo di lotta nei confronti delle discriminazioni, è diventato un vocabolo con accezione negativa. Oggi, in effetti, la parola viene utilizzata quasi esclusivamente dai detrattori dell’ideologia Woke (si può parlare di ideologia? Ne parlerò a breve) con funzione dispregiativa, al fine di denunciare un atteggiamento che, in effetti, palesa molteplici contraddizioni, elementi di debolezza, fragilità strutturali di pensiero e di ragionamento.

Ha senso parlare di ideologia Woke?

La Treccani definisce “ideologia”:

Il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale.

In quest’ottica, credo proprio che la Woke possa essere considerata un’ideologia. Un’ideologia nata con l’intento di diffondere consapevolezza sul tema delle disuguaglianze sociali, soprattutto verso i soggetti che non sono parte di nessuna categoria vittima di suddette disparità. Il fine ultimo dell’ideologia Woke dura e cruda è quello di tendere costantemente verso l’uguaglianza, combattendo tutte le forme di discriminazione sociale. Un ideale bellissimo, no?

Ma allora, se la cultura Woke si fa portavoce di un messaggio universale di fratellanza, di amore, di uguaglianza, come e perché questa parola è diventata divisiva e, persino, offensiva? È tutta colpa delle destre cattive, dei restauratori del pensiero, dei gerontocrati e dei nazionalisti? No. Questo tipo di lettura non renderebbe giustizia a un termine e a un dibattito decisamente complessi e meritevoli di essere analizzati in tutte le loro sfaccettature. 

Ancora una volta, come mi piace sempre suggerire (fallendo), proviamo a non assumere un atteggiamento di aprioristica presa di posizione; tentiamo di non schierarci in modo automatico dall’una o dall’altra parte; entriamo invece nelle pieghe di un tema sociale che non può essere trattato in modo superficiale.

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C’è Woke e Woke: buone intenzioni e strumentalizzazioni

Come detto, la cultura Woke promuove l’assunzione di consapevolezza su tutte le ineguaglianze esistenti al mondo: non più solo il razzismo, bensì ogni tipo di discriminazione perpetrata nei confronti di categorie umane deboli, sottomesse, private di pari trattamenti e opportunità di autodeterminazione… Allora cosa è andato storto? In che modo un messaggio così nobile è diventato divisivo e inviso a una fetta di pubblico sempre più rilevante (e non necessariamente composta da militanti delle ultra-destre)?

Probabilmente ha senso prendere in considerazione come la cultura Woke sia andata declinandosi in due diversi filoni:

  • La Woke che mira a porre in evidenza le ingiustizie, a combatterle e a sensibilizzare la popolazione.
  • La Woke che pretende di dettare la linea narrativa, assumendo una posizione caratterizzata da aggressività, ostentazione di una presunta superiorità morale, cancel culture.

È facile intuire come la grande narrazione contemporanea sia alimentata dal secondo filone: è per colpa degli estremisti del pensiero inclusivo che oggi, attorno al termine Woke, si è radunata un’accolita di detrattori di ciò che viene percepito (a buona ragione) come un pensiero dispotico e generalizzante.

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Quando la forma vince sulla sostanza: la Woke del politicamente corretto

Si diceva, gli estremisti del pensiero Woke. Di cosa sto parlando esattamente? Insomma, diciamo che c’è una corrente Woke costruttiva che vorrebbe sensibilizzare, diffondere il germe della lotta sociale, distruggere le disparità in tutte le loro aberranti espressioni.

C’è poi la Woke distruttiva, che vuole imporre la propria visione, impossessarsi delle parole, delle immagini e dei racconti. La Woke che vuole spiegare a chiunque cosa sia giusto dire e pensare e cosa no; cosa è degno di essere raccontato e cosa dovrebbe essere gettato nell’oblio. La Woke che si impegna attivamente a fare revisionismo storico, decontestualizzando le storie, spazzando via la memoria popolare. 

Ed è lì che il confronto sociale si inasprisce, diventando scontro fra punti di vista inconciliabili, per nulla intenzionati a dialogare, ma volenterosi di battere la controparte attraverso l’uso della forza. E ogni dialettica basata sulla ricerca del potere non può che finire allo stesso modo: con la lotta fomentata dall’odio, l’idolatria, la logica del “O io o loro”. E a questo siamo giunti oggi.

La cancel culture

La cancel culture – o cultura della cancellazione – è un fenomeno contemporaneo che trae origine dalla deriva Woke: parliamo di un fenomeno sociale in cui un individuo subisce boicottaggi o aspre critiche pubbliche in seguito a dichiarazioni percepite come politicamente scorrette, discriminanti o socialmente inaccettabili.

Sembra qualcosa di perfettamente logico, no? Un personaggio pubblico si rende protagonista, ad esempio, di dichiarazioni di stampo razzista, omofobo, sessista, ecc. e la società, in modo pressoché spontaneo, isola quel personaggio, tacitando il suo punto di vista. In realtà, parliamo di una dinamica molto più subdola di ciò che appare, specie se consideriamo quanto oggi sia facile, attraverso l’utilizzo dei social, strumentalizzare qualunque cosa, stravolgerne la narrazione e, conseguentemente, aizzare l’odio di gruppo nei confronti di quella persona.

Il wokismo

Ecco come l’ideologia Woke, portata alle sue estreme conseguenze, si rivela un’arma di controllo delle masse. Ecco come un movimento nato con intenti nobilissimi si può facilmente trasformare in uno strumento di violenza e di omologazione. Ecco come è stata data vita a una corrente di pensiero che ha saputo appropriarsi delle parole e dei significati, stabilendo cosa sia legittimo affermare e cosa no; quali parole siano consone e quali dovrebbero essere sradicate dai dizionari; quali film siano degni di essere offerti al grande pubblico e quali dovrebbero essere invece eliminati da ogni palinsesto. Quali opinioni siano meritevoli di essere proferite e quali devono invece essere tenute per sé, al fine di salvaguardare la propria immagine. Di fatto, questa è letteralmente politica del terrore: scegliere di non affermare il proprio punto di vista per timore di ritorsioni.

Questo è il wokismo: voler intimare agli altri come dovrebbero parlare. Un esercizio di potere, una macchinazione volta a creare un protocollo del politicamente corretto che asseconda la pretesa che il modo di esprimersi possa plasmare il modo di pensare.

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Il problema non è il pensiero Woke, è l’ipocrisia

Il vero problema di questa visione estremizzata, la genesi di tutti i mali, sta in due elementi:

  • Si guarda alla forma e non alla sostanza
  • Si è mossi da interessi utilitaristici e non dal benessere della collettività

La forma batte la sostanza

Le nuove battaglie Woke, quelle che vorrebbero spazzare via con un colpo di spugna Via col Vento (film del 1939!) perché propone una visione stereotipata degli afroamericani; quelle che vorrebbe imporre pronomi femminili in ogni contesto; quelle che attivano shitstorm nei confronti di chiunque scivoli in una gaffe sui temi legati alla diversità, dimostrano un’attenzione quasi morbosa nei confronti della forma del linguaggio, senza preoccuparsi di andare a fondo alle questioni, senza interrogarsi sul perché esistano le differenze sociali, senza dichiarare mai davvero guerra alle infrastrutture e ai sistemi che fanno in modo che le disuguaglianze si perpetrino esattamente allo stesso modo, da anni, decenni, secoli.

Il Woke, portato verso la sua degenerazione più autoritaria, oggi vuole annientare un tipo di cultura popolare nella quale si anniderebbe il seme del pregiudizio, del razzismo, dell’omofobia. L’obiettivo non è più quello di cambiare la società, bensì di addolcire la sua facciata pubblica, proibendo parole, contenuti, racconti, pensieri che la pongono in cattiva luce. Il tutto, senza coinvolgere davvero i rappresentanti delle categorie colpite da discriminazione, senza interrogarsi sui veri problemi né mobilitarsi per una loro risoluzione.

Così, il Woke, da movimento di denuncia, si è involuto nella sua deriva più bieca in una sovrastruttura di censura e di pressione sociale. Un filtro che non lascia passare ciò che, a insindacabile giudizio dei depositari di una presunta superiorità morale, non concorre a rappresentare (rappresentare, non creare) un mondo giusto, equo, politicamente corretto.

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Motivazioni deboli e opportunistiche: il Woke Washing

Lo chiamano Woke Washing o Capitalismo Woke: ovvero il processo secondo cui aziende, brand e personaggi pubblici si allineano a cause progressiste – su tutte la lotta contro le discriminazioni – non in nome di un ideale, bensì per mera convenienza strategica, per opportunismo, per guadagno. Perché, se questi temi si prendono i riflettori e incassano il favore del pubblico, è ovvio che legarsi ad essi può portare giovamento alla propria causa, sia essa consistente nella vendita di prodotti, nella conquista di voti o anche solo nel guadagnare riconoscibilità.

Il caso Disney e il vero valore dell’arte

Disney è certamente l’esempio più significativo di questo processo tuttora in atto.

Gran parte di noi è cresciuta a pane e cartoni animati Disney. Disney è la produzione che, per dirne una, ha consacrato Mulan, eroina senza super poteri, capace di fare ciò che fanno gli uomini, meglio degli uomini, scalfendo e conquistando un sistema patriarcale. Un racconto efficace, poiché esposto senza ipocrisia e, soprattutto, senza la pretesa di spiegare, di insegnare, di dettare la linea

Per decenni, Disney ha raccontato storie e generato arte; ha posto davanti agli occhi dei bambini personaggi che hanno saputo universalizzarsi, consegnarsi alla storia, trascendere le generazioni e lanciare messaggi senza una data di scadenza. E riuscivano a fare ciò perché non muovevano dall’intento di ammaestrare vanagloriosamente gli spettatori. Le storie erano storie, attraverso cui passavano messaggi formativi, insegnamenti di vita che lo spettatore sapeva cogliere da sé.

Poi, più o meno a partire dall’era post-covid, Disney ha optato per un’inversione di tendenza, ha deciso di ergersi a custode dell’etica e della morale contemporanee, ma lo ha fatto in maniera estremamente pigra, superficiale e accomodante: perché, per insegnare ai bambini che la diversità è un valore, ha ritenuto sufficiente trasformare la danese Ariel de ‘La Sirenetta’ in un’eroina dai tratti afro o Biancaneve in un personaggio con discendenze latine.

A lezione di morale

Intendiamoci: il problema non è modificare le storie; cambiare la chiave narrativa di un racconto è perfettamente lecito, anzi, sarebbe insensato agire diversamente: che senso avrebbe replicare una storia che è già stata raccontata? Il problema, semmai, è che questo tipo di approccio pensa di poter lisciare il pelo alle vittime di discriminazione, semplicemente, assegnando ruoli di primo piano a esponenti delle categorie sociali che il pubblico riconosce come penalizzate. Come se esibire una causa e combattere per essa fossero la stessa cosa.

L’arte si trasforma in una lezione di costume e, così facendo, perde il senso di sé, si svuota, si smarrisce. Cattedratica, paternalistica e spocchiosa, l’arte diventa simulacro di ciò che dovrebbe essere, perde di significato e finisce molto presto con l’essere dimenticata. E non potrebbe essere diversamente: perché non si parla più di arte, bensì di rappresentazioni, di strumentalizzazioni funzionali a uno scopo che con l’arte non ha da spartire nulla, storie che nascono con un destino già segnato, perché subordinate a un fine che non è quello artistico (e neppure sociale, a ben vedere). Inevitabilmente, quelle forme d’arte (che arte non è) saranno cancellate insieme alle lotte che vogliono sfruttare, quando esse non avranno più ragione di essere propagandate.

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Quindi Woke è sbagliato?

Ora però voglio sgomberare il campo da qualunque tipo di equivoco: le lotte sociali sono importantissime, significative, rendono il mondo migliore e devono essere portate avanti, ma con modalità differenti. E sono in moltissimi ad utilizzare la parola Woke per sminuire e ridicolizzare chiunque si batte attivamente e in modo costruttivo contro ogni tipo di discriminazione. L’utilizzo della parola Woke è certamente appannaggio, spessissimo, di una platea realmente conservatrice e per nulla disposta ad accogliere un cambiamento della struttura di pensiero, in relazione al sessismo, al razzismo, all’omofobia o a ognuno di questi temi.

L’ideologia Woke dovrebbe però riappropriarsi della sua visione originaria, tornare a combattere le ingiustizie, andare a fondo ai problemi senza ricercare risposte semplici a problemi complessi. Dovrebbe affrancarsi dal desiderio di dettare la narrazione. Perché, oggi, sembra che più che cambiare il mondo, si voglia agghindarlo per farlo sembrare più bello di quel che è.

Il sentire comune non si modifica partendo dalle parole; le parole sono semmai uno specchio fedele del pensiero egemone. Pretendere di poter combattere le disuguaglianze partendo dalla manipolazione del linguaggio e dei racconti sarebbe come chiudere l’ombrello per far smettere di piovere.

Sebbene fondamentali in ogni processo di cambiamento, le parole, da sole, non lo avviano né lo sostengono inerti. È la rivoluzione del pensiero e della cultura a innescare la trasformazione, da cui, a sua volta, può propagarsi un’evoluzione del linguaggio.

Il diritto di offendere

D’altra parte, come sempre nella società della tuttologia social, temi, battaglie e rivendicazioni vengono ridotte a simboli di appartenenza e creano modalità di esprimersi estremamente comode e poco pensate. Perché, se è vero che l’universo Woke, per come si configura oggi, palesa una serie enorme di contraddizioni e fragilità, è allo stesso modo vero che diventa un pratico appiglio per offendere ed etichettare persone che, semplicemente, hanno ancora la voglia di battersi contro le sperequazioni sociali.

Così, ecco che a trincerarsi dietro la minaccia Woke sono esattamente le persone che dalle istanze Woke dovrebbero essere colpite e affondate. Appellarsi al “pensiero unificante Woke” diventa il lasciapassare per poter esprimere idee intolleranti, con linguaggi intolleranti, con ragionamenti intolleranti.

Quindi, per chiudere, è doveroso un ultimo distinguo: denunciare la violenza del linguaggio odierno, fatto di pregiudizi, razzismo, avversione verso le ‘diversità’ non è Woke. Così come appellarsi alle imposizioni omologanti Woke per esprimere posizioni bigotte e sprezzanti nei confronti delle categorie più fragili non rende un razzista meno razzista, un omofobo meno omofobo, un maschilista meno maschilista.