Generalmente, vengono definiti “slogan”, anche se la terminologia, almeno per gli addetti ai lavori, ha passato il segno da tempo. In questo articolo vi voglio parlare di 3 famosi payoff che hanno fatto storia, cristallizzandosi nella memoria collettiva per elevarsi a modi di dire.
I tre slogan hanno una storia affascinante, talvolta soggetti a più interpretazioni: in tutti i casi, si tratta di saette di creatività che si stagliano nella nostra quotidianità, per non uscirne più. Cominciamo!
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I’m Lovin’ It – McDonald’s
Siamo nel 2003 e il colosso dei fast food McDonald’s vive una fase di forte crisi, si vocifera che potrebbe persino finire gambe per aria. Come spesso accade in queste situazioni, l’azienda opta per una rivoluzione di marketing, pensata in particolare per raggiungere la fascia di pubblico dei giovani, in quel periodo storico poco affine alla proposta commerciale della M dorata. Dopo una serie di consulti con agenzie di tutto il mondo, McDonald’s acquista il progetto di una tedesca che, già nella sua progettazione iniziale, presentava la headline “I’m Lovin’ It”, preceduta dal quasi altro e tanto celebre “ba-da-ba-ba-ba”.
La realizzazione del jingle viene affidata a Morris ‘Butch’ Stewart, vero e proprio punto di riferimento nella produzione musicale per la pubblicità. Il risultato finale, però, non appaga i vertici del fast food, che ritengono ancora insufficiente la rivoluzione di marketing in atto: per fare in modo che la svolta pubblicitaria funzioni, serve tirare dentro il progetto un nome di grido, una star che sappia catalizzare l’attenzione.
Per la riscrittura del testo e della musica viene coinvolto Pharrell Williams, uno dei più grandi producer del XXI secolo e icona dell’hip hop di quegli anni. Assieme a lui, viene contattato anche Justin Timberlake, scelto per pompare in tutto il mondo la nuova faccia del marchio del Big Mac. L’ex membro degli ‘N Sync, scioltisi da pochissimo, registra una traccia prettamente pop:
“I’m lovin’ it” viene lanciata in tutto il mondo, ottenendo anche un’ottima risposta dal pubblico. Il bello, però, è che McDonald’s non rivela che la traccia è associata a un progetto di marketing: il pezzo va in trend come se fosse una ‘normale’ opera di Timberlake.
Ora ci siamo: McDonald’s può procedere, lanciare la campagna mondiale, capeggiata dal nuovo payoff, e rivendicare la paternità del singolo di Timberlake. Eppure ancora non ci siamo.
La canzone è troppo pop, non adatta al pubblico a cui sta pensando il vertice aziendale, ovvero quello dei giovani, sempre più imbevuti della cultura hip hop e delle fascinazioni dell’underground. Serve un approccio street, un portabandiera che parli la lingua delle strade. E viene individuato: Pusha T, rapper e futuro esponente di spicco dell’alternative hip hop, che, contattato da Pharrell Williams, viene buttato dentro al progetto. Il rapper lavora nuovamente al brano, inserendo anche una nuova strofa interamente dedicata al Big Mac, prodotto di punta della catena di fast food. Ok, ora ci siamo, McDonald’s è pronta a fare la storia e a rendersi protagonista di una delle campagne pubblicitarie più famose di sempre.
Resta tuttora un dubbio, legato alla… sintassi. Possiamo tradurre il payoff di McDonald’s come “lo amo”, ma questa sarebbe una traduzione non letterale, dato che la versione inglese utilizza il present progressive, tempo verbale che indica un’azione che si sta ancora compiendo (senza considerare che la -ing form con verbi come ‘love’, ‘like’ e ‘hate’ è formalmente scorretta). Insomma, letteralmente sarebbe più giusto renderla come “Lo sto amando”. Come mai questa scelta? Che sia dovuta alla volontà di trasmettere un messaggio di continuità, come a voler dire che McDonald’s c’è sempre e l’atto di amarne le sue proposte culinarie non si interrompe mai? O il payoff lascia intendere che a pronunciare la frase sia qualcuno intento a consumare il panino? Qui entriamo nell’ambito dell’interpretazione, a voi la vostra.
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I Want You – Governo degli Stati Uniti d’America
Conosciamo tutti lo Zio Sam, l’iconico vegliardo personalizzazione degli Stati Uniti d’America. Ripercorrendo la storia di questo affascinante personaggio, scopriamo che, molto probabilmente, la sua origine è dovuta semplicemente alla corrispondenza fra le sue iniziali – Uncle Sam – e quelle degli Stati Uniti. Come spesso accade, però, la leggenda ci ha ricamato sopra, dipingendo un quadro forse ben più articolato di quanto il vero svolgimento dei fatti concederebbe di fare.
Le prime tracce bibliografiche dello zio d’America si rilevano già a partire dai primi dell’800, quando l’espressione Zio Sam veniva adottata dalla stampa avversa al potere centrale di Washington in riferimento allo stesso governo americano. La narrazione ormai accettata dalla collettività colloca la nascita del personaggio a New York, dove tale Samuel Wilson si occupava di rifornire di carne le truppe e da queste ultime era stato ribattezzato, appunto, Uncle Sam. I barili di viveri erano targati US (United States), ma le lettere furono scherzosamente associate a Wilson, sdoganando questa figura che, da lì a poco, sarebbe stata conosciuta in tutto il mondo.
Lo Zio Sam è il frutto della propaganda di reclutamento americana, utilizzato per la prima volta nel 1917 per la campagna bellica dedicata alla Prima Guerra Mondiale. L’immagine fu creata dal vignettista e pubblicitario americano James Montgomery Flagg, che utilizzò un’immagine di Wilson per creare il personaggio, lasciandosi anche ispirare da una trovata simile lanciata nel Regno Unito quattro anni prima e che vedeva come protagonista un certo Lord Kitchener (generale britannico che vinse la guerra anglo – boera sul finire del XIX secolo). Come noto, nel manifesto campeggia lo slogan “I WANT YOU FOR U.S. ARMY”, ma lo Zio Sam ha saputo travalicare i confini della propaganda di regime, elevandosi a personalizzazione e simbolo di un’intera nazione.
Meditate, gente, meditate – AssoBirra
Facciamo un salto a casa nostra. A cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 dello scorso secolo, il musicista e personaggio pubblico Renzo Arbore fu protagonista di una serie di spot che entrano di prepotenza nella memoria collettiva, ponendo all’attenzione una frase che sarebbe divenuta idiomatica anche per le generazioni successive – che verosimilmente non hanno mai visto gli spot.
Committente delle campagne promozionali fu Assobirra, l’associazione che tutela i diritti di birrai e maltatori, con lo scopo di promuovere il consumo della bevanda e di esaltarne i valori di leggerezza e genuinità. Gli spot, infatti, utilizzano due frasi iconiche, costruite una a completamento dell’altra. La prima affermazione, posta alla fine di una più o meno breve trattazione sui benefici della bevanda al luppolo, chiosa “Birra, e sai cosa bevi”. L’altra, quella che è poi entrata nell’immaginario comune, si lascia andare a un laconico ed esortativo “Meditate, gente, meditate”, strizzando probabilmente l’occhio alla tradizione birraia nota presso diversi ordini monastici, su tutti i trappisti, dediti, fra le varie mansioni, a meditare e… a produrre birra.
Oggi, a guardare gli spot genuini, quasi ingenui di quegli anni, ci viene un sorriso, ma le campagne furono un successo strepitoso: non si trattava di una ‘semplice’ promo di prodotti, ma un invito a rivedere le proprie abitudini di consumo a tavola. Arbore si impegnò attivamente nell’incoraggiare il consumo di birra con i pasti, scacciando via una serie di stereotipi legati in quegli anni alla bevanda alcolica. A distanza di 30 o 40 anni, va detto che la campagna ha decisamente fatto centro.